Le pubblicazioni scientifiche italiane contano decine di testi di psicologia medica che trattano la comunicazione tra medico e paziente. La comunicazione medico-paziente è più rilevante rispetto a quella tra un cliente e un’altra figura professionale: la relazione tra il medico e il paziente non è quasi mai solo professionale ma è anche umana e personale. Ne abbiamo già parlato a proposito di bambini.
Oggi diamo per scontato che alla base di una diagnosi o di un percorso di cura ci sia la comunicazione con il paziente, ma non è stato sempre così: in passato si dava maggior peso alla silenziosità del medico quindi il party di comunicazione con il paziente veniva ritenuta superflua, quasi una perdita di tempo che distoglieva l’attenzione da quella che era invece la scienza silenziosa, quella considerata invece importante.
Analizzando la storia della medicina sotto il punto di vista della comunicazione con il paziente, possiamo renderci conto come ci siano stati periodi di alternanza: in alcuni momenti si riteneva che la medicina dovesse essere “silenziosa”, in altri invece si pensava che dovesse puntare sulla comunicazione.
Se torniamo agli albori della medicina e cerchiamo la sua figura forse più importante, Ippocrate, possiamo vedere come questi disprezzasse coloro che credevano di poter guarire con l’arte delle parole – quella che oggi chiamiamo comunicazione – credeva che queste persone in realtà non facessero altro che intralciare la nascente scienza medica. Seguendo questo filone per molto tempo il medico veniva considerato come una persona silente, spinta più verso l’azione che non verso la comunicazione: doveva agire sulla base dell’osservazione del ragionamento, non tanto comunicare con il malato.
Con il progresso tecnologico il rischio di annullare la comunicazione tra paziente e medico è oggi ancora più alto: grazie alle moderne tecnologie è possibile fare diagnosi senza invasività e – quindi – senza dover per forza dialogare con il paziente.
Oggi, dati i ritmi di lavoro sempre più frenetici e il problema del dover ottimizzare spazio e tempo, il medico è visto più come una figura che prescrive medicinali, non tanto come una persona con la quale dialogare.
Anche l’odontoiatra, in quanto figura di riferimento per quanto riguarda il mantenimento della salute di una persona, dovrebbe possedere una buona competenza comunicativa.
Purtroppo non sempre nell’università vengono insegnate le tecniche comunicative. L’odontoiatra si trova quindi impreparato nell’affrontare quella che è la sua pratica clinica quotidiana cioè il dialogo con il paziente e capire qual è il suo problema e come aiutarlo nel percorso di guarigione.
Con queste premesse non ci possiamo quindi stupire del fatto che spesso la relazione tra paziente e odontoiatra si risolva come un semplice tentativo da parte dell’odontoiatra di ricondurre segnali e sintomi a una patologia conclamata da curare e il paziente a ricevere semplicemente il trattamento: si verifica in sostanza una totale mancanza di comunicazione. In questo spesso l’assistente ASO è fondamentale perché viene vista come una figura materna, come una persona che riesce a fare da tramite tra le paure, le angosce e il bisogno del paziente di comunicare e raccontare il suo problema e la figura più istituzionale e distante dell’odontoiatra con cui si ha talvolta paura di interagire. L’ASO è sempre attenta alle esigenze del paziente.
L’ASO risulta quindi come un facilitatore della comunicazione, un ponte tra la comunicazione dell’odontoiatra per quanto riguarda il percorso di cura e la comunicazione del malessere del paziente per quanto riguarda ciò che vuole fare arrivare alle figure che sono in quel momento le persone che hanno in cura la sua salute.