La relazione d’aiuto: la vita dietro la poltrona

La relazione d’aiuto rappresenta un’interazione umana profonda, capace di generare un cambiamento reale in chi la vive.
Secondo Carl Rogers, pioniere del Counseling, è uno spazio di incontro in cui almeno uno dei partecipanti ha come obiettivo quello di favorire la crescita, lo sviluppo e la maturazione dell’altro, promuovendo comportamenti più integrati ed equilibrati. Non si tratta solo di un concetto astratto: è una pratica viva, concreta, che respira ogni giorno tra le pareti di uno studio odontoiatrico o in qualsiasi luogo dove si lavori a stretto contatto con le persone.

Negli anni, leggendo commenti, ascoltando confidenze nei corridoi o durante consulenze, ho visto come questo principio prenda forma nella realtà quotidiana di chi lavora a contatto diretto con l’altro. Ho sentito le stesse parole tornare come un ritornello: stanchezza, incomprensioni, piccoli rancori che si incastrano tra una cartella clinica e una telefonata, diventando grandi silenzi che rischiano di scalfire anche le relazioni più solide. Eppure, tra queste fatiche quotidiane, ho colto anche la voglia tenace di farcela, di trovare un modo per stare bene insieme, di costruire spazi di lavoro più sani e collaborativi.

Perché dietro ogni gesto di cura, apparentemente semplice, si muove un mondo interiore fatto di emozioni da riconoscere e gestire. La rabbia, ad esempio, è una compagna silenziosa ma costante negli studi dentistici: si annida dietro un paziente scortese che scarica la propria frustrazione su chi lo accoglie, dietro un collega distratto o poco collaborativo, dietro un’agenda che non rispetta mai i piani e impone ritmi a volte insostenibili. Ignorarla non serve: prima o poi trova il modo di uscire, spesso nel momento meno opportuno e nella forma più sbagliata.

È qui che la relazione d’aiuto si fa concreta e preziosa: significa imparare a prendersi cura non solo dell’altro, ma anche di sé. Dare un nome a ciò che proviamo è già metà del lavoro. L’altra metà è trovare il coraggio di dirlo, di renderlo visibile e condivisibile: “Ho bisogno di una pausa”, “Mi sento sopraffatto”, “Questa situazione mi fa arrabbiare, ma non voglio farla esplodere addosso a te”. Solo così si evita che la rabbia diventi un fiume sotterraneo pronto a tracimare quando meno ce lo aspettiamo.

Il concetto di “vita in relazione” di Rogers lo mostra bene: ogni persona esiste sempre in connessione con gli altri. Non esiste una linea netta tra chi dà e chi riceve aiuto. Anche in uno studio odontoiatrico, ASO, odontoiatra e paziente sono legati da un filo sottile di fiducia, ascolto e scambio reciproco. Un filo che tiene insieme competenze tecniche, parole, silenzi e gesti spesso invisibili ma essenziali.

Perché questo legame funzioni davvero, non bastano manuali o procedure impeccabili: servono empatia, ascolto profondo, la capacità di comunicare in modo autentico. La comunicazione verbale, il linguaggio del corpo, l’ordine dell’ambiente, un sorriso o una parola detta bene al momento giusto fanno la differenza per chi si siede su quella poltrona… e per chi, ogni giorno, si prende cura di lui. Ma fanno la differenza anche tra colleghi: un ambiente sereno nasce da piccoli gesti di rispetto, da un buongiorno sincero, da una mano tesa quando serve, da uno sguardo che dice “Ti vedo, non sei solo”.

Se guardiamo indietro, possiamo ricordare come un tempo l’ASO imparasse tutto sul campo, spesso osservando e imitando. Oggi i percorsi formativi sono più strutturati, solidi sul piano tecnico e normativo, ma il cuore rimane lo stesso: la relazione. Accogliere l’altro significa anche accogliere sé stessi, i propri limiti e le proprie emozioni. Significa fermarsi prima di reagire, scegliere di condividere piuttosto che accumulare. Significa non dimenticare mai che dietro ogni camice, dietro ogni sorriso di cortesia, c’è una persona con i suoi bisogni, le sue paure, i suoi sogni.

Dopo tante storie ascoltate, una conclusione mi è chiara: non esiste ambiente sereno senza persone disposte ad ascoltarsi davvero. E per ascoltare l’altro, bisogna prima imparare ad ascoltare sé stessi. È lì che la relazione d’aiuto diventa reale: uno spazio di cura reciproca, fatto di pause, parole, sguardi, respiri.
Alla fine, chi si prende cura degli altri deve concedersi di restare umano. E umani lo restiamo ogni volta che troviamo la forza di dire: “Ho bisogno di respirare, prima di continuare a prendermi cura di te.”Perché prendersi cura non è mai un atto a senso unico, ma un cammino a doppio senso: io curo te, mentre imparo a prendermi cura di me.

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