Ogni studio odontoiatrico ha una sua vita interna, un ritmo che si impara respirandolo giorno dopo giorno. È fatto di abitudini, di rituali, di modi di comunicare che spesso non hanno bisogno di parole. Dentro questo piccolo ecosistema, l’arrivo di una nuova ASO rappresenta sempre un momento particolare: una soglia. Da un lato, chi entra per la prima volta; dall’altro, chi abita quello spazio da anni. Due universi che si sfiorano, che si osservano, che provano a riconoscersi.
Per la nuova arrivata, tutto è intenso: il desiderio di dimostrare qualcosa, la paura di sbagliare, la sensazione di essere sotto esame per ogni gesto, dalla prima assistenza in poltrona alla prima sterilizzazione. E c’è una forma di pudore – quasi timidezza – nel muoversi tra colleghi che si conoscono da tanto, che hanno un loro linguaggio condiviso, un loro modo di tenere insieme le giornate. Sono sentimenti umanissimi: chiunque, entrando in un ambiente coeso, sente il peso della novità e vuole capire quale posto potrà occupare.
Dall’altra parte c’è chi accoglie. Spesso con disponibilità, altre volte con un po’ di sospetto. Perché un team consolidato è come una casa: ha una sua geografia interna, e ogni nuovo ingresso può far temere un equilibrio che si sposta, una routine che si altera. Nei racconti che affiorano sui social si sente questa tensione: giovani che parlano di essere state messe alla prova, giudicate troppo in fretta, a volte persino “soggiogate” dalle veterane, soprattutto da quella figura storica che in ogni studio viene percepita come la più autorevole, la più fidata, quasi la “regina” accanto al titolare. Non per cattiveria, spesso, ma perché ciò che conosciamo da molto ci sembra sempre l’unico modo possibile di fare le cose.
È qui che nasce un rischio sottile: replicare dinamiche che ricordano – in forma attenuata – il nonnismo delle caserme o di certe comunità chiuse, dove la gerarchia non viene insegnata, ma imposta; dove si pensa che “anche io ho sofferto, quindi anche lei deve passare da qui”. Una spirale che, se non riconosciuta, finisce per logorare il clima di lavoro, avvelenare la collaborazione, e soprattutto tradire la natura stessa della professione di ASO, che vive di cura, cooperazione, attenzione reciproca.
Eppure, è altrettanto vero che anche chi arriva per ultimo porta con sé una responsabilità: quella di ascoltare prima di giudicare, di osservare i ritmi prima di volerli cambiare, di comprendere che ogni studio ha una storia fatta di anni di equilibri, di emergenze affrontate insieme, di ritmi appresi con il tempo. Non è facile per nessuno trovare il proprio passo dentro una struttura già formata, ma è proprio la pazienza – da entrambe le parti – a fare la differenza.
Quando l’ingresso di una nuova collega diventa occasione di nervosismo, di difesa, di piccole rivalità, tutto lo studio ne risente. Gli ambienti odontoiatrici, più di altri luoghi di lavoro, sono organismi delicati: la collaborazione non è un accessorio, ma una condizione indispensabile. Senza fiducia non c’è coordinamento; senza coordinamento non c’è efficienza; senza efficienza, nemmeno il paziente si sente al sicuro.
E allora l’arrivo dell’“ultima” dovrebbe diventare, paradossalmente, un momento di rinascita per tutto il team: un’opportunità per rimettere in discussione abitudini date per scontate, per insegnare senza arroganza, per accogliere senza sospetto, per ricordare – alle veterane come alle nuove – che ognuna, in un momento diverso della vita, è stata quella che osservava in silenzio, quella che non conosceva la procedura giusta, quella che cercava di capire come non intralciare. E ognuna, prima o poi, sarà chiamata a diventare guida per qualcun’altra.
In fondo, in uno studio odontoiatrico non esiste davvero un’“ultima”. Esistono persone che entrano in tempi diversi, ma tutte contribuiscono allo stesso scopo: creare un ambiente di lavoro che sia armonico, solidale, capace di affrontare le giornate con un senso di squadra e non di competizione. Perché non è il grado di anzianità a definire il valore, ma il modo in cui ci si mette al servizio del gruppo.
E se è vero che ogni team ha bisogno di regole, è altrettanto vero che ha bisogno di gentilezza. Accogliere non significa perdere il proprio ruolo; essere nuove non significa rinunciare alla propria personalità. Significa costruire ogni giorno un equilibrio condiviso: fatto di pazienza, di umanità, di rispetto reciproco.
È questa, alla fine, la vera identità professionale dell’ASO: una professione che esiste solo nella relazione con gli altri. E che trova la sua forza ogni volta che qualcuno, varcando quella soglia per la prima volta, non si sente “l’ultima che arriva”, ma semplicemente una parte nuova e preziosa della squadra.