Navigando tra i social dedicati al mondo odontoiatrico, sembra che la colonna sonora dominante sia il lamento. Bacheche e gruppi diventano spesso una sorta di “sfogatoio” collettivo, il contenitore privilegiato delle frustrazioni quotidiane. Così la negatività prevale, l’entusiasmo viene schiacciato e la percezione che ne deriva è quella di un ambiente tossico e demotivante. Ma se il lamento non porta a soluzione, perché ci ostiniamo a coltivarlo?
Il problema non è il criticare in sé. Anzi, il confronto e la denuncia di ciò che non funziona sono necessari. La differenza, invece, sta nell’intenzione che li muove:
- Il lamento finalistico è costruttivo, autentico, orientato a un obiettivo. Nasce da un disagio reale e desidera un cambiamento. Trasforma un sintomo in consapevolezza e apre la via alla soluzione.
- Il lamento afinalistico, invece, è sterile: ripetitivo, rassegnato, demotivante. Non cerca vie d’uscita, ma solo un pubblico che faccia da specchio. È la “radio lamento” di sottofondo che logora i colleghi e alimenta abitudini tossiche.
Il paradosso è che lamentarsi in modo sterile non solo non cambia le cose, ma rischia di consolidarle. Le neuroscienze ci spiegano che il cervello, ripetendo certi schemi linguistici ed emotivi, si adatta: più ci lamentiamo, più diventa naturale continuare a farlo. La lamentela diventa automatica, come un pappagallo interiore che ripete sempre lo stesso ritornello.
Eppure, sappiamo bene che la realtà non è solo negativa. Ci sono tante ASO che traggono grande soddisfazione dal proprio lavoro, che non lo cambierebbero per nulla al mondo, che vivono la relazione con i pazienti come un privilegio e non come un peso. Queste voci, però, rischiano di venire eclissate dal rumore di quelle distruttive.
Certo, viviamo in un’epoca segnata da tensioni e incertezze globali – crisi ambientali, conflitti geopolitici, paure di guerra – che alimentano un senso diffuso di malessere e di paura. Ma almeno nella nostra sfera professionale e negli affetti più vicini possiamo trovare un’ancora di salvezza, un contesto in cui costruire energia positiva, invece di abbandonarci alla lamentela sterile.
Dunque, la domanda è: che senso ha lamentarsi continuamente di tutto senza alcuna volontà di cambiamento?
Se il lamento nasce da un problema reale, traduciamolo in proposta: “Rimaniamo sempre con pochi guanti small a fine settimana, non conviene aumentare le scorte di magazzino?”
Se nasce da un malessere più profondo, fermiamoci a chiederci: “Sto migliorando la mia vita o sto solo ripetendo un copione che mi fa stare peggio?”
Il ruolo dell’ASO non è solo tecnico. È anche relazionale e di cura. Chi sa prendersi cura delle persone non si lamenta, ma trasforma i problemi in opportunità di crescita. Passare dal lamento alla soluzione è il vero salto di qualità che distingue un ambiente ostile da un team sereno, un gruppo frammentato da una squadra unita.
In fondo, come scriveva Nietzsche, il lamento è rinuncia alla forza vitale dell’esistenza. La scelta allora è nostra: rimanere intrappolate nella “lamentite cronica” o riscoprirci protagonisti attivi, capaci di trasformare ogni difficoltà in occasione di crescita, per noi stessi, per i colleghi e per i pazienti che ogni giorno si affidano a noi.